Helicon Editrice, 2000 – pagg.84
Prefazione di Francesco Gallea - Saggio introduttivo di Neuro Bonifazi Postfazione di Sergio Giuliani.
Dalla prefazione di Francesco Gallea a “Le Rose di Hebron”: “L’autrice apre, con questa nuova raccolta di versi, ad una poesia di profonda e sofferta meditazione… Nei versi si coglie palpabile il senso escatologico dell’esistenza, il contenuto vivo di una realtà spirituale che recupera le scansioni del tempo di una vita (quella del padre scomparso), ma le supera e le congiunge con le radici dell'infinito”.
Dalla nota introduttiva di Neuro Bonifazi a “Le Rose di Hebron”: “Il cammino di questa poesia, pieno di mirabili invenzioni e variazioni fantasiose, è dunque tracciato sullo schema di un dramma interiore che parte da un lutto familiare, ma arriva a coinvolgere con ostinata insistenza, l’intera storia religiosa (dove non mancano i riferimenti alla mitologia classica e alla misteriosofia orfica) e politica della civiltà occidentale ed ebraico- cristiana”. E più avanti: “… a quelle rose del giardino, ormai sfogliate e morte, si sostituiscono le rose di Hebron, le rose del conforto vitale della parola dei Profeti e del Dio di Abramo, le rose che scacciano così il dolore e la tristezza come gli inganni dell’immaginazione che vorrebbe ancora viva la persona amata… La rosa diventa addirittura un colore: “l’acqua rosata dell’aurora”; “apri la tua corolla/ che nel rosa aurorale del cielo trascolora”; “… l’ultima neve/ la sola rosa”.
Dalla quarta di copertina de “Le Rose di Hebron” , uno stralcio dal giudizio di Renzo Nanni: “… indimenticabile quel continuo tessuto – concerto di visioni di natura fatte di fiori e stagioni che rendono intensamente, e vorrei dire magicamente, lo scorrere delle memorie e si fanno metafore quanto mai suggestive…”.
E dalla postfazione di Sergio Giuliani al libro “Le Rose di Hebron”: “… La poetessa si è cimentata nella sfida più ardua e complessa, la sola però a rendere ragione del dire poetico: iscrivere la nostra esperienza nel mare vasto della cultura e della tradizione del sentire di tutti gli uomini, tutti nello spazio e nel tempo a loro dati”. E ancora : “Una lettura irta di mito e di esperienza delle religioni, mai però usate come orpello decadente; una lettura e una costruzione faticate (…) e volute in un contesto complesso e fascinoso, è questo nuovo poema di Franca Maria Ferraris”.
Per uno strano caso
Si concretò allo sguardo
In un riquadro della palladiana,
la fulva zimarra volpina del cane Lilì.
Un piccolo Argo nostrano
dal muso arguto,
gli occhi d’ambra fulgenti tra il fogliame,
come perle di brina.
Lilì,
calato un giorno triste
alla radice buia del ciliegio
dove per anni giacque in un sudario
di glicine appassito,
ora tornava,
sgusciato via da un bosco sepolcrale
con lutto ed allegria.
Come un Argo fedele,
attendeva paziente il suo Odisseo
per spartire con lui l’ombra serale.
La morte rapisce e sa ridare.
Al nulla unisce
ciò che nel mondo accade,
dal nulla a noi concede
quelli con cui vivemmo
e che da noi piangendo
già presero congedo.
IMMAGINA
Immagina,
in un racconto d’inverno,
i monti innevati sulle cime
e un crepuscolo lento traghettato
da nubi opache
ad un chiarore di stelle dicembrine.
Immagina i fiocchi di cristallo
come un mantello sul suolo indurito,
e un bambino che corre nella selva
con un ceppo di pino sulle spalle.
Immagina quel ceppo come un sole
acceso nelle stanze vespertine
e mani che si tendono al calore
e volti rischiarati da faville
in un dolce bagliore.
Immagina
in questo racconto d’inverno
un bimbo avaro di parole
che sogna viaggi in terre di sole
e i vecchi silenziosi al focolare
in una schiva pace di preghiera,
il cuore già rapito
da quella levità
di neve e d’infinito,
da quell’ombra furtiva
che passa sulla sera.