Marco Sabatelli Editore, 2015, pagg. 199
Incisioni di Cristina Sosio
Prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti
Introduzione di Sergio Giuliani
In questa silloge, Franca Maria Ferraris insegue il proprio sangue:
il paterno piemontese e il materno ligure, facendosi guidare
da due autentici e autorevoli consanguinei compagni di
viaggio e di avventura letteraria: Cesare Pavese, il poeta delle
verdi colline piemontesi, cariche d’uva, e Camillo Sbarbaro,
il poeta dell’azzurro e inquieto mare di Liguria. Secondo un
ritmo intenso, si effonde la “grazia”, come bellezza interna di
“riflessi” profondamente ancestrali e antropologici, di “posti”
legati ai “personaggi” e, di “riflesso”, appunto, all’autrice, che
di essi poeticamente si nutre per un viaggio interiore, in cui la
letteratura rivendica un ruolo strategicamente esistenziale ed
esemplare, luogo ideale e reale nel quale celebrare i riti della
vita, tra miele ed assenzio per Pavese, tra luce ed ombra per
Sbarbaro. Ogni poeta sceglie uno o più autori, come Dante
fece per Virgilio, come Boccaccio farà per lo stesso Dante, per
attraversare la selva, fitta dei segni segreti della propria esistenza.
Si spalanca così un universo inedito e imprevisto per
chi scrive, ricco di rimandi a una letteratura che torna a farsi
vita, abbeverandosi alle fonti originarie di una classicità, che è
contemporaneità; di una natura che è cultura; tra metafora e
realtà, tra desiderio e sogno.
Chiare nell’infinito le colline
vegliano sulla casa silenziosa
cui il fiume rimanda la sua canzone d’acqua;
tra i pampini assiepati della pergola
i raggi a picco filtrano
rabeschi sulla soglia di granito.
È l’ora meridiana della calura estiva,
quando i filari sul dorso del pendio
maturano grappoli di sole,
quando senza più ombra
gli alberi soffrono il vuoto dell’assenza,
e la casa ristagna
in un oblio incolpevole,
di colomba addormentata sotto l’ala.
Poi lenta la luce trascolora,
il tramonto tinge di rosa la facciata
e in quel bagliore estremo
più forte profumano i fiori,
il fiume è un prato di smeraldi vivi,
una falce di luna fende il cielo,
e scende dalle alture
la magia di una voce.
Dietro i crinali già s’inabissa il sole,
si accendono i falò lungo i sentieri
in una vampa di sterpi e di stelle,
arde quel velo di malinconia
che avvolge l’anima
quando la luce muore.
L’agave
Cresceva stenta l’agave
nell’umida terra di collina
ma presto si radicò senza fatica
nell’arso terreno della costa.
Aggrappata ai dirupi e alle scogliere,
l’agave chiede poco
a questa terra marina,
al vento non flette le sue foglie,
ma come scettri
le volge all'orizzonte a richiamare
con il segno di storie gurriere
più forte il desiderio della pace.
Tra sabbie d’oro e sassi di sale
l’agave dipana la sua sorte,
ama le onde quiete o tempestose,
il tempo eroso da ore fuggitive;
con l’animo del vecchio pescatore
paziente per anni sta in attesa
che nasca dal suo scapo un figlio - fiore;
e quando il figlio nasce,
sempre più in alto l’agave lo innalza
verso l’azzurrità del cielo,
nuovo Icaro con le ali di cera troppo in alto levate,
troppo vicine al sole.