Franca Maria Ferraris

Recensioni

 

Giudizi di importanti critici sulle opere - Recensioni 2015

Nel segno della poesia

Ho seguito l’intensa opera poetica, svoltasi nel tempo, di Franca Maria Ferraris che, sostenuta da una dichiarata passione, da un fuoco che le ditta dentro, è pervenuta alla stesura di questo libro, quasi un compendio e una ripresa sistematica e armonica delle tematiche già trattate: un’opera, questa, di grande respiro, che non indulge all’ “io soggettivo”, con il risultato di una poesia moderna, aperta all’altro, pur innervata nella tradizione italiana.
La musicalità è avvolgente come le onde del mare della Liguria dove la Nostra vive. Ma, come giustamente fa notare nell’Introduzione Sergio Giuliani, all’interno della sonorità, dettata dalle rime e dalle assonanze, dall’endecasillabo e dal settenario, come in molta poesia di Sbarbaro, chiamato in causa insieme a Pavese, “i ritmi all’interno della strofa si frangono, dissonano nella conclusione con verso ipermetro”.
Questo succede anche nella chiusa di molte poesie a denotare una ricerca di stile al passo con i tempi.
Il libro è stato dettato dalla lunga frequentazione della Ferraris con la poesia di Pavese e di Sbarbaro, a ognuno dei quali ha dedicato una sezione. La motivazione di questo amore, oltre all’apprezzamento dei versi, è che essi sono nati e vissuti negli stessi luoghi frequentati o abitati dall’autrice: in Piemonte è nato il padre, in Liguria la madre.
La Ferraris è di origine Valbormidese dove, appunto, scorre il fiume Bormida che, come ben rileva nella prefazione Bàrberi Squarotti “percorre e unisce le due regioni: nasce in Liguria, e segna a fondo, aprendole e dividendole, le Langhe, per perdersi poi lontano fino a congiungersi con il Tanaro e con il Po”.
È dunque un filo affettivo quello che, da sempre, unifica e fonde i due luoghi che alimentano il suo ricordo, i suoi affetti, e fanno convergere nell’espressione poetica il dato esteriore con il fatto interiore.
Interessante è l’interpretazione del titolo “La grazia dei riflessi” nella “Nota dell’Autrice” in cui così spiega: “Grazia” come dono, perché nelle opere di entrambi i poeti ho scoperto una luce che, di riflesso, ha favorito il germinare di alcuni miei pensieri e ardori e sentimenti [...]” Inoltre “grazia” come bellezza[...]scaturita dalle opere dei poeti sopra citati”. E così continua: “I riflessi sono le molte sollecitazioni, meditazioni, e il desiderio di conoscere a fondo i luoghi di quei poeti, trasformati in paesaggi della mente, cioè in poesia”.
Il termine “riflessi” è reiterato più volte, e il verso “la grazia dei riflessi”, che ha suggerito il titolo, è tratto dalla poesia “Ogni giorno apro la finestra”. La poetessa guarda dalla finestra il fiume che, allegoricamente, invia, come il mare, miriadi di scintille corrispondenti agli stimoli poetici inviati a lei dai due autori.
Ma è inutile cercare in quest’opera, come ci si aspetterebbe, un’imitazione o una ripresa della poesia dei due poeti.
Dante ha per guida Virgilio, ma l’opera dantesca, sia pur mossa e influenzata da Virgilio, si muove autonomamente. Prova è che lo stile non muta nelle due sezioni: l’autrice prende il volo con le sue ali e salpa il mare con proprie vele.
Tuttavia qualche considerazione va fatta, dal momento che i due poeti sono stati chiamati in causa.
L’interesse della Ferraris per Pavese si accentra nella “visione del tempo” (citazione mutuata da Milo de Angelis), concetto che ne incarna l’opera poetica e in prosa. “Visione del tempo” significa in Pavese avere coscienza del trascorrere del tempo che nelle mutazioni si ripete uguale a se stesso, e questo si può meglio constatare leggendone le stratificazioni in uno spazio geografico circoscritto come le Langhe.
Bàrberi Squarotti, nel saggio “Il viaggio come struttura del romanzo pavesiano” (ma cita anche “Lavorare stanca”), apparso ne “Le colline, i maestri, gli dei”, analizza l’opera di Pavese che a un primo approccio fa pensare, per le sue caratterizzazioni geografiche e per le descrizioni, mai fine a se stesse, a un viaggio nello spazio.
A ben vedere, però, i personaggi, curiosi di sperimentare quanto Ulisse, compiono alla fine il loro nostos, il ritorno che per Pavese è riapprodare nelle Langhe, paesaggio letterariamente esemplare.
Anche la diatriba tra immortalità e mortalità è citata dalla Ferraris nella prosa poetica ( pag. 59) “Il nulla e il tutto” che, riprendendo il tema da “L’isola” dei “Dialoghi con Leucò”, partecipa di questo sentimento tragico del tempo che investe anche gli immortali, tanto che la dea Calipso si affida all’attimo fuggente, nell’indifferenza della vita e della morte, come confessa a Odisseo.
Il ricordo, la memoria, senza cui non si dà scrittura, il sogno (l’ultima poesia della raccolta ha per titolo “Un sogno di terra e di mare” dove la Ferraris immagina come in sogno la persona amata in arcioni che “galoppava verso oceani di nebbia all’orizzonte”, cioè verso l’infinito) , la favola (l’autrice ha scritto anche un romanzo fantasy), un amore appassionato per la natura, fiori e piante nominati quasi a volerli accarezzare (ortensie, tigli, betulle, ontani, abeti, mandorli ecc...), la contemplazione minuziosa del paesaggio nelle sue forme osservate nella mutevole luce, con descrizioni rare, ma più la fervida fede nel poetare, nell’atto puro del poiein (e non, a mio avviso, una fede religiosa, come sostiene Giuliani), le danno la forza di accettare le crepe della vita, armonizzandole e sublimandole in dettato poetico.
Tuttavia, quasi tutte le poesie che rinviano alla malinconia del tempo rovinoso, all’accenno di vite tutt’altro che facili, esprimono, nei versi finali, un riscatto, espandono una luce che rimette in moto la speranza. Così ella salva la parte di noi che sa assorbire il quotidiano e tradurlo in una dimensione più elevata: quella del pensiero.
Anche la morte è sussurrata, un mistero che ci strappa i nostri cari e li conduce, come certi personaggi del mito, verso l’Eternità, un luogo qui definito con immagini poetiche e una levità di linguaggio che ne attutiscono la tragedia.
Rimane dunque la suggestione e la rivisitazione dei paesaggi, nella piena volontà di ricrearli oggi più vivi che mai: il verde e le petraie delle Langhe, i rovi delle colline, il vino che scalda, i falò, le casupole, i sentieri mille volte percorsi, i campi, mentre, nei versi dedicati a Sbarbaro, ripropone l’azzurro del mare, il soffiare del vento, lo stormire delle foglie, la vitalità dell’agave e, infine, l’umiltà dei licheni di cui Sbarbaro era cultore.
Il verde e l’azzurro sono i colori più citati in tutte le gradazioni, i più amati perché simboleggiano per l’autrice la terra d’origine dei due amati autori, che è anche la sua, per geografia e per elezione. Due terre divenute una, dove il verde del monte si fonde con l’azzurro del mare.
Vorrei dare rilievo, parlando di colori, al fatto che la Ferraris ama la pittura e frequenta una cerchia di pittori che spesso illustrano le sue opere, come nel citato “Le parole del mare”.
Impreziosiscono “La grazia dei riflessi” le acqueforti di Cristina Sosio, ricercate e appropriate, attraverso cui si vuole offrire al lettore il senso della concretezza dei luoghi citati, cogliendone il tratto più realistico, come nella casa di Sbarbaro a Spotorno o in quella di Cesare Pavese a Santo Stefano Belbo, per citarne due soltanto.
L’autrice, dunque, si riflette in più specchi, nella poesia di Pavese e di Sbarbaro, e anche nelle incisioni della Sosio, da cui la sua immaginazione prende le ali per la creazione di un proprio viaggio poetico.
A Sbarbaro dedica la poesia “Questo saluto sia per te il tutto” in cui viene evocata la sua migliore raccolta “Pianissimo” e dove ricorda il poeta come vivo: “i tuoi occhi ancora /abbracciano il mare/ le tue mani ancora si protendono/ al verde della selva e la glorificano”. Ma più vivo è rimasto in lei l’amore che Sbarbaro ha nutrito per la poesia: “quello stesso amore/che hai riversato / nella natura e nella poesia”. E al riguardo aggiunge: “Il verde è radice, Poeta, / il verde allieta, / ma la poesia salva, / salva e lenisce /la cupa inimicizia del buio”.
Ella ha immerso Sbarbaro nella “Dimensione dell’ombra”, un poeta sommesso, a bassa voce, che vorrebbe dimenticare anche se stesso. Molte atmosfere riportano alla poesia di Sbarbaro, e il ricrearle è un omaggio al poeta del mare che tanto ha dato anche a Montale.
Un libro dunque, questo della Ferraris, ben articolato, tra poesia, prosa e acqueforti, con richiami costanti ai due poeti-guida, ma assolutamente autonomo nelle tematiche e nella versificazione.

LAURA RAINIERI

Roma 11 novembre 2014

 

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