Franca Maria Ferraris

Recensioni

 

Giudizi di importanti critici sulle opere - Recensioni 2009

“Dedicato al silenzio” Bastogi, 2009

Ecco la nuova opera poetica della Ferraris, quasi un “itinerarium in lucem” dalle profonde tenebre della morte. Non è la prima volta che la nostra poetessa richiama in vita con la potenza della sua poesia una persona cara che negli eventi della vita l’ha abbandonata. Mi riferisco al bel libro ”Elegia per la madre” uscito nel 1996 che ho avuto modo di leggere così come le altre opere. Allora era veramente uno strappo, un acuto lacerante lamento di una giovane Demetra abbandonata in una tempestosa marea.
Immagini e metafore forti erano presenti in quell’Elegia, come quelle che qui si ritrovano, e sempre accanto al dolore il sostegno del ricordo e dell’amore che travalica ogni confine e che si fa luce per illuminare un aldilà in cui la Ferraris ripone una fede poetica certa.
Dico fede poetica affidata al sogno e alla fantasia poiché non ho trovato, come succede spesso per poesie di questo genere, il nome di Dio né l’abbandono, per il troppo dolore, al suo grembo. La chiamo comunque religiosità quella della Ferraris, sia pure di sapore pagano o cosmico, per la ferrea volontà di un credo di sopravvivenza dopo la nostra morte. Un filo certo ha attraversato e condotto a compimento tutta la sua opera, che in questo ultimo libro è più accentuato e chiaro.
Se allora era il ricordo di un grido di bambina per la perdita della propria madre, in versi brevi di singhiozzo, ora è la donna che, assaporato il mistero della vita, si adagia in versi ampi di meditazione e di interrogazione, a volte quasi di prosa, per affidare ancora una volta “al silenzio” poetico, a un monologo-dialogo, il senso intimo e contraddittorio del proprio vivere insieme al compagno che l’ha lasciata.
Poter ritrovare nell’assunto poetico quel dire che la vita nel suo ordine troppo quotidiano non ci ha permesso di esprimere: è la spina di quasi ognuno che viene lasciato, quel margine d’ombra che solo la poesia può sanare. Le “due figure …trattenute da un senso di composto rigore” danzano “ in sogno quel tango/ che non entrò nel cuore con passione”. E’ l’ultima poesia della raccolta, un profondo rammarico per non aver saputo o voluto aprire di più l’animo al compagno, o così ora le pare, poiché ogni assenza getta un senso di colpa in chi sopravvive in quanto quel punto fermo, quel passo definitivo, c’impone di ripercorrere  tutta la nostra vita nella convinzione che sarebbe potuta essere diversa.
Questa inattuata possibilità, è ciò che la poesia cattura con immagini sognate, metafore luminose di cui la Ferraris è bene esperta, parole sferzanti, e parole dolcissime d’amore forse mai pronunciate per “composto rigore”.
Dicevo appunto un itinerario verso la luce. Così ho letto quest’opera, considerando le tre sezioni del libro: “I dialoganti monologhi del silenzio”; “Stelle & Stelle” ;“L’Alba”.
Dal silenzio profondo, dalla neve, dal ghiaccio, dalla nebbia, dall’ombra, il marito viene interrogato dalla sposa per sapere cosa c’è di là, affinché certifichi quello che Franca Maria vuole sapere, affinché venga superato il muro d’ombra che divide i morti dai vivi e, pur nel dolore che la perdita le ha recato, egli ancora viva dove “il tutto che muore qui rinasce”.
Nella prima parte i ricordi sono più cocenti, la geografia di un volto che si allontana, i momenti belli degli Champs Elysées, gli oggetti comuni, tutto ciò insomma che fa parte di una vita a due; però la volontà -  come nella bella poesia di Marina Cvetaeva per la scomparsa di R. M. Rilke -  di penetrare il mondo nuovo in cui il marito vive, di conoscere per amore l’impenetrabile, supera l’attaccamento alla cose dell’affetto, e ribalta il pensiero della morte in vita, anzi in luminosissima vita.
Come per Maria Zambrano,  anche qui la vita è morte, un breve granello di clessidra che passa e introduce alla vita vera che è fulgida luce. Dunque il concetto è rovesciato e la morte è la vera vita.
Infatti bisogna passare per la morte perché la materia, cioè il corpo, torni alla materia e lo spirito alla luce.
“ Quanti vennero in questo mondo sono gocce di luce, sono scintille che dal mondo di luce furono fatte scendere da Sofia nel mondo del Pantocrator, del caos, ove sono avvinte dalle catene dell’oblio: il Salvatore scese per liberare queste gocce, queste scintille, destarle dal sonno , additare la via della luce per risalire al Padre” (cfr. “Sophia jesu Christi” scritto gnostico).     
Se si esamina la seconda sezione, dove il sentimento tragico incipiente della morte del marito si è di poco attenuato, si nota che la parola “alba” già presente nella prima sezione, compare in quasi tutte le poesie. “Esse conoscono chi giunge qui ogni alba” “L’alba nella luce tardiva” “L’alba avanzava possente e misteriosa” “Pensi che la tua fuga verso la luce di quest’alba d’inverno” “ Una pioggia grondante sull’alba” “Fonde la luce dell’alba nascente” “In quest’alba di nuvole lontane” ecc… E insieme al termine ‘alba’, compaiono numerosi gli aggettivi della luce che attendono alle stelle. Dunque l’alba e la luminosità stellare sono protagoniste, quelle stelle che il marito sapeva leggere e studiare in cielo e riportare sulle carte astrali, che qui la Ferraris, a sua volta, riproduce.
Forse guidata dall’interesse del marito, qui si guarda al cielo, con varie e fantasiose visioni, con nuove e più stringenti domande sapendo che persino le stelle sono un’immagine scomparsa di milioni di anni luce ma ancora ne rimane il riflesso, come, sembra dire la poetessa, rimarrà per sempre il riflesso del nostro amore.
Un po’ come per il viaggio dantesco ci si avvicina sempre di più alla luce. L’alba è il momento della speranza, ricordiamo l’Innominato, dell’attesa di un giorno migliore, della interezza di un corpo pieno di energia dopo il riposo notturno, l’alba infine è per il cristiano l’alba di Resurrezione.
E qui la Ferraris sembra  dire che la vita di fronte al Cosmo, al Tempo, alle cose eterne è davvero poco, anche se rappresenta le radici a cui siamo caparbiamente attaccati. Il suo sguardo dunque si allunga nell’ultima sezione, appunto, ”Alba” già così ben predisposta dalla precedente, oltre il terrestre in considerazioni e versi che assurgono all’eterno. “ Ma morire/ non è forse affondare nel profondo/per raggiungere una luce più grande?” E sempre di più la mente si fissa nell’impenetrabile “inizio dell’alba”, dove comincia il chiarore del cielo, dove tutto potrà infine essere chiaro, anche il crittogramma dell’amore.
Con questa poesia, ancora una volta la nostra poetessa ci affida un messaggio di vita.
Nel chiaroscuro dei versi che riflettono sia nelle passate raccolte poetiche, come anche in questa, le contraddizioni del vivere,  ella trova una via luminosa al di là del “pianto di stelle” o “del male di vivere” o delle assillanti domande leopardiane alla luna, che ci conduce fuori e oltre le maglie intricate del vivere.

LAURA RAINIERI

Roma 26 giugno 2009

 

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